- Link al libro: Nardella, C. (a cura di), Religioni dappertutto. Simboli, immagini, sconfinamenti, Carocci Editore (2024)
La cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, trasmessa in diretta televisiva in mondovisione, ha suscitato scalpore per una rappresentazione dell’Ultima cena di Leonardo caratterizzata da una complessa serie di inversioni. All’inversione più evidente – al posto di uomini vi sono drag queen – se ne aggiungono altre: il lungo tavolo sorregge, invece di un pasto, una console da deejay per trasformarsi poco dopo nella passerella di una sfilata di moda.
A questa rappresentazione la Conferenza Episcopale Francese ha risposto con una nota ufficiale. La gerarchia ecclesiastica denuncia il riferimento all’Ultima cena come un’invasione pubblica di campo, in particolare del campo simbolico, accusando la cerimonia olimpica di contenere “scene di derisione e di scherno del cristianesimo” e, indirettamente, reclamando a sé un potere di controllo e di uso legittimo dei propri simboli e significati.
Non è la prima volta che accade qualcosa del genere, anche se normalmente fare riferimento alla religione nella sfera pubblica non fa emergere conflitti. Nei casi pacifici, l’uso di richiami religiosi può apparire come un fenomeno semplicemente curioso e in fin dei conti marginale, anche se in realtà non lo è: rivela il crescente peso della dimensione simbolica per settori della società diversi da quello religioso. Nei casi di conflitto, invece, l’uso della religione diventa oggetto di dibattito accendendo controversie sui simboli e sulla loro gestione, la cui vera posta in gioco è il consenso collettivo che nel tempo si è accumulato su di essi.
Il processo di dissociazione dei simboli religiosi dal loro contesto originario – per un verso – e per altro verso la loro persistente efficacia nel contesto mediatico sono al centro di un volume curato da Carlo Nardella intitolato Religioni dappertutto: Simboli, immagini, sconfinamenti (Carocci, 2023). Il volume nasce dall’idea di studiare la presenza della religione sulla scena pubblica, focalizzando l’attenzione su una serie di contesti in cui si fa ricorso a simboli con significato religioso per esaminare da chi e in che modi tali simboli sono impiegati. Quest’idea nasce dalla constatazione che immagini e simbologie pertinenti a una sfera religiosa sono oggi sempre più visibili nello spazio pubblico mediatizzato. Non tanto in settori e canali religiosi specializzati, quanto piuttosto dove non ci si aspetterebbe più di trovare questo tipo di riferimenti: dalla politica ai media, dalla pubblicità all’arte visiva fino all’industria della moda. In ambiti dove vedere richiamata una sfera religiosa è oggi considerato, almeno nella percezione diffusa, un fatto alquanto insolito. Compito degli autori è stato verificare se e con quali modalità ciò stia avvenendo o sia avvenuto, individuare le trasformazioni prodotte dall’adattamento dei simboli religiosi a nuovi contesti d’uso e far luce sui vantaggi ottenuti dai diversi attori sociali coinvolti. Ecco alcuni passaggi chiave.
Religione e politca: Donald Trump e la comunità evangelica
Nel suo capitolo, Stewart Hoover analizza il caso dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump quando, il 1° giugno 2020, si fece fotografare con una Bibbia in mano per sfidare il movimento Black Lives Matter che lo stava contestando fuori dalla Casa Bianca.
Quel gesto, immortalato da tutti i media statunitensi, produsse un’immagine dirompente capace di veicolare un potente messaggio politico rivolto non solo alla sua base elettorale ma più in generale all’intera opinione pubblica americana. L’analisi di Stewart Hoover decodifica questo messaggio e il suo possibile impatto sull’elettorato conservatore, in particolare su quello evangelico che Donald Trump, da presidente degli Stati Uniti, era riuscito a conquistare e che oggi continua a coltivare ricorrendo alla retorica religiosa in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2024. Ad esempio, inserendo citazioni bibliche nei suoi discorsi pubblici, tenendo veri e propri comizi presso chiese amministrate da pastori conservatori e presentandosi sui suoi social network come «agnello sacrificale» e «martire». Tutto ciò contribuisce ad alimentare una narrativa in cui Trump è riconosciuto come un «messaggero di Dio» mandato a rimettere in ordine le cose, abilmente collegata al mito nazionalista fondativo degli Stati Uniti – che gli studiosi indicano con l’espressione «eccezionalismo americano» – cioè l’autoconvincimento di essere la nazione eletta da Dio per la rigenerazione del mondo. Qui interviene anche l’attivismo di Steven Bannon, noto per essere l’ideologo del progetto politico di Donald Trump, promuovendo produzioni mediatiche che articolano in modo esplicito l’immaginario nazionalista religioso. Un esempio è il film Torchbearer diretto e prodotto da Bannon nel 2016, la cui sceneggiatura vede il protagonista riflettere sulla storia americana da un punto di vista nazionalista revisionista.
In vista delle elezioni alla quarantasettesima presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump ha accelerato su questa strada adottando una strategia che oltre ai media ora include anche il marketing. Durante i suoi comizi, invita tutti a comprare la Bibbia nella versione “God Bless the USA” venduta sui suoi siti a 59,99 dollari accanto a molti prodotti non religiosi, come le ormai famose scarpe Trump Sneakers e altri accessori di moda.
Religione e moda: il caso Dolce&Gabbana
Rimanendo sul piano della moda, il contributo di Lynn Neal prende in esame una collezione del brand di moda Dolce&Gabbana, intitolata “Mosaico sartoriale”, in cui gli abiti sono impreziositi da riferimenti che richiamano i mosaici a tema religioso del duomo di Monreale. I motivi a mosaico su questi capi di abbigliamento evocano un’idea di italianità di lusso – associata all’antichissima maestria degli artigiani che componevano questi mosaici nelle chiese dell’Italia bizantina e di quella medievale – che il brand Dolce&Gabbana riesce a traferire su stesso.
Secondo Lynn Neal, viene così a crearsi un intreccio complesso nel quale religione e arte, connesse alla biografia dei due stilisti siciliani, concorrono a dare un senso di autenticità alla collezione. Più in generale si può ipotizzare che, in questo processo di decontestualizzazione, i simboli religiosi subiscano una trasformazione, divenendo una sorta di capitale che può essere impiegato da brand commerciali per creare nuovi prodotti culturali– è importante notarlo – con funzioni che vanno a puro vantaggio del brand stesso.
Religione e pubblicità: l’eterna contesa
Dei vantaggi derivanti dal trasferimento di simboli religiosi al di fuori dei loro confini originari erano già consapevoli i primi pubblicitari che, agli albori della diffusione del consumo di massa, inserivano questo tipo di riferimenti nelle loro pubblicità. Analizzando un’ampia raccolta di manifesti pubblicitari circolati in Italia tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo, il capitolo di Carlo Nardella individua i simboli religiosi più utilizzati, gli scopi pubblicitari cui essi rispondevano e i principali cambiamenti registrati nel tempo.
Dall’analisi emerge anzitutto un dato di sfondo: i riferimenti religiosi permettevano ai pubblicitari di collocare i prodotti commerciali dell’epoca in un universo di significato che poteva essere facilmente riconosciuto e compreso dal pubblico, per il quale la fabbricazione e il commercio di beni di consumo di massa era un fatto del tutto inedito. Emerge, inoltre, l’esistenza di un’articolazione interna alla simbologia religiosa usata in questi manifesti data dalla differenza tra simboli positivi e simboli negativi. I simboli positivi erano utilizzati per esaltare la bontà o l’utilità dei prodotti promossi. Un esempio è il manifesto che pubblicizza la società contro i danni della grandine La Reale, nel quale un angelo custode trasferisce la proprietà della protezione a questa assicurazione.
I simboli negativi erano invece a loro volta sdoppiati venendo impiegati in due modi diversi. Uno manteneva inalterata l’accezione negativa del simbolo, l’altro la aboliva o comunque la trasformava attribuendo all’aspetto tradizionalmente negativo un significato positivo. Un esempio del primo caso è il manifesto del cachet Rosa, una compressa analgesica raffigurata estirpare un diavolo dalla testa di un uomo che soffre di emicrania. Il secondo caso è esemplificato dal manifesto del sapone Pasubio, in cui un diavolo buono dona il prodotto a una folla ansiosa di riceverlo.
L’uso positivo di un simbolo negativo come quello del diavolo si può comprendere meglio considerando il contesto storico italiano in cui questi manifesti circolavano, nel quale il progresso tendeva a essere visto come un ritrovato diabolico. In tale prospettiva, la figura del diavolo permetteva di costruire anche una sorta di messaggio inverso volto a rassicurare il pubblico che i prodotti offerti non fossero effettivamente delle «diavolerie». Era questo un timore paragonabile a quello suscitato nel Nord America dello stesso periodo dall’avvento di nuovi mezzi tecnologici di comunicazione, dal fonografo al grammofono alla radio. Marco Adria nel suo capitolo analizza la diffusione di queste tecnologie mediatiche mostrando come la loro capacità di riprodurre suoni in modi che le persone non avevano mai sperimentato prima di allora – e che per questo ritenevano provenire dall’oltretomba – fosse pubblicizzata attraverso simboli religiosi con la funzione di rassicurare i potenziali consumatori alleviando la loro crescente “angoscia mediatica”. Tra i più noti all’epoca vi era l’angelo della Deutsche Grammophon, la più antica casa discografica al mondo, nel cui logo appariva un angelo che incideva con una penna su un disco per permettere al pubblico di comprendere la nuova tecnologia della registrazione alla base del fonografo. Un messaggio diametralmente opposto a quello oggi che si ritrova nelle pubblicità che commercializzano i moderni brand tecnologici, specialmente quelli informatici, in cui la religione è usata non certo per sfatare la natura diabolica dei loro prodotti ma per esaltarli come doni divini.
Religioni dappertutto (o da nessuna parte)
Questi esempi indicano che siamo di fronte ad alcuni rilevanti mutamenti nell’uso pubblico dei simboli religiosi. Tali simboli, pur variando rispetto al contesto d’uso, agli attori sociali che vi fanno ricorso e ai loro obiettivi, hanno tutti in comune una caratteristica di fondo: la loro graduale ri-oggettivazione al di fuori di un campo specialistico della religione. Emerge anche che non si tratta di cambiamenti recenti: possono essere fatti risalire molto indietro nel tempo, a dinamiche in atto da più di un secolo.
Un punto centrale è quali conseguenze abbia sulle istituzioni religiose la trasformazione dei loro simboli. Le implicazioni dello spostamento che rende le religioni visibili dappertutto sono assai complesse. Da un lato, le religioni oggi calcano la ribalta perché diventano in qualche modo utili agli attori sociali che vi fanno ricorso, offrendo a questi soggetti risorse simboliche funzionali alla costruzione dei loro messaggi. D’altro canto, la collocazione originaria di questi riferimenti entro il campo religioso passa in secondo piano, mentre i simboli religiosi diventano un deposito di immagini e segni che può essere liberamente usato per creare nuovi prodotti culturali. In quest’ottica, l’immissione delle religioni sulla scena pubblica potrebbe essere solo una faccia della medaglia, comportando al contempo una retrocessione delle religioni dalla ribalta, dovuta al fatto che le istituzioni religiose perdono la capacità di gestire – o almeno di controllare in modo esclusivo – il proprio patrimonio simbolico in favore di altri attori collocati in altri campi e settori della società.