Link al libro: Natili, M. (2019) The Politics of Minimum Income. Explaining Path Departure and Policy Reversal in the Age of Austerity, Palgrave MacMillan.
Alla fine degli anni Ottanta Grecia, Italia, Portogallo e Spagna erano gli unici paesi in Europa privi di un sostegno economico sottoposto a prova dei mezzi e finanziato tramite fiscalità generale. Sostegno, in genere, a somma fissa nel resto del continente, condizionato alla realizzazione di misure di inclusione sociale e lavorativa. Questa mancanza, e gli scarsi investimenti nel settore delle politiche assistenziali, assegnavano un ruolo cruciale – nella lotta alla povertà – a famiglie e organizzazioni caritatevoli: il peculiare modello di welfare proprio dei paesi del sud Europa si basa proprio su questi due pilastri. In Europa centrale e settentrionale la situazione era diversa. Negli ultimi trent’anni è cambiata anche sul Mediterraneo. Ecco come.
Il declino di un modello di welfare
In Spagna, anche senza un intervento nazionale, tra il 1989 e il 1995 tutte le comunità autonome hanno introdotto schemi di reddito minimo che – pur con rilevanti differenze – coprivano l’intero territorio nazionale, e che nel corso del tempo sono andati gradualmente rafforzandosi. Il Portogallo già nel 1996 ha introdotto uno schema nazionale di reddito minimo. Tale programma, nonostante un parziale ridimensionamento negli anni più duri della crisi, è rimasto attivo fino ai giorni nostri. Più tortuoso è stato il percorso di Italia e Grecia.
In Italia, nonostante alcune sperimentazioni realizzate già sul finire degli anni Novanta – sia a livello nazionale che a livello regionale – si è arrivati alla definitiva istituzionalizzazione di uno schema di reddito minimo solo nel 2017 con l’introduzione del reddito di inclusione, quasi immediatamente sostituito dal più generoso (e costoso) reddito di cittadinanza. In Grecia a lungo le proposte provenienti dagli esperti hanno ricevuto ben poca attenzione nell’agone politico, fino all’introduzione nel 2017 del cosiddetto “reddito di solidarietà sociale”.
Che cosa ha spinto questi paesi ad abbandonare un modello che a lungo aveva resistito a qualsiasi mutamento ? Come hanno fatto ad affermarsi misure espansive in un contesto socio-economico di austerità permanente (se non crescente)? E perché queste misure sono state introdotte con modalità e tempi tanto diversi in paesi che pure condividano inizialmente lo stesso modello?
Una spiegazione difficile
Non è facile spiegare l’introduzione di schemi di reddito minimo in sistemi di welfare oramai consolidati, in un’epoca di forte competizione tra i diversi gruppi sociali per risorse pubbliche in diminuzione. I beneficiari di tali prestazioni – i “poveri”, i disoccupati di lungo periodo, giovani in cerca di primo lavoro, madri sole, lavoratori precari e immigrati – possiedono, infatti, limitate risorse politiche, essendo (in genere) numericamente poco rilevanti, dotati di scarsa capacità di mobilitazione e di risorse insufficienti a esercitare efficacemente pressione sui principali attori politici e sociali.
Perché promuovere riforme di politica sociale a favore dei settori più vulnerabili e politicamente più deboli in una fase caratterizzata da risorse scarse? Quali attori politici lo hanno fatto?
L’importanza dei sindacati
A partire dal 1992, l’Unione europea ha attivamente promosso la diffusione di schemi di reddito minimo, fornendo idee, ovvero soluzioni di policy, e legittimità ad attori politici intenzionati a promuovere il cambiamento istituzionale del modello di welfare nei paesi mediterranei (e non solo).
L’azione uniforme dell’Unione europea è stata rilevante. Ma non spiega perché, a fronte di pressioni simili, Italia e Grecia abbiano adottato tali strumenti oltre vent’anni dopo il Portogallo e la Spagna e perché tali prestazioni abbiano caratteristiche molto differenti in ognuno di questi paesi. Le idee, buone o cattive che siano, per diventare politiche devono esser fatte proprie da attori politici. A fare la differenza sono state le specifiche dinamiche nazionali di competizione politica. È stata ovunque necessaria la formazione di una domanda per degli schemi di reddito minimo, ovvero che un qualche portatore di interesse forte si facesse portavoce della promozione di tali prestazioni a favore di gruppi sociali deboli.
In Europa i principali sostenitori di misure non contributive di sostegno al reddito – nella forma “pura” di un reddito di base, ma anche di un reddito minimo garantito – sono stati movimenti sociali che tentavano di mobilitare un nuovo soggetto politico: il precariato. Tali movimenti difficilmente riescono da soli a influenzare le scelte di policy, se non a livello locale e in presenza di alleati all’interno delle istituzioni. Spesso riescono tuttavia a introdurre il tema nella discussione politica generale. Nel Sud Europa una funzione simile è stata svolta anche da alcune associazioni caritatevoli legate alla Chiesa Cattolica, in particolare la Caritas. Sebbene tali attori siano stati in passato poco favorevoli all’intervento pubblico in una delle aree tradizionalmente di “loro” competenza come la povertà, in alcune circostanze si sono spesi per favorire l’introduzione di misure di reddito minimo formando fra loro coalizioni di natura più o meno formale.
Queste coalizioni sono necessarie perché la domanda da debole diventi forte e capace di influenzare le decisioni politiche anche a livello nazionale. Ma fintanto che non coinvolgono anche i sindacati, non si dimostrano in genere sufficienti per esercitare una pressione efficace sui decisori politici. In Spagna, Portogallo e da ultimo anche in Italia, l’introduzione di schemi di reddito minimo è avvenuta dopo la mobilitazione dei sindacati a favore di queste prestazioni. Per questa ragione, tempi di attuazione diversi degli schemi di reddito minimo sono dovuti in larga misura alle scelte sindacali. Non è scontato. È noto, infatti, il sospetto delle organizzazioni sindacali nei confronti di misure di politica sociale non strettamente collegate al lavoro: l’approccio “lavorista” tende a considerare il lavoro come principale strumento di emancipazione per le classi subordinate. Inoltre, la difesa degli interessi dei propri iscritti – oppure “dell’organizzazione” – genera opposizione nei confronti di misure di protezione di natura non contributiva, specie in fasi di austerità e crescita di competizione tra i gruppi sociali per risorse pubbliche in diminuzione.
Nonostante queste tradizionali resistenze, nel tentativo di aumentare la propria membership rappresentando nuove tipologie di lavoratori e di legittimare il proprio ruolo nelle società post-industriali, i sindacati si sono mostrati disponibili a schierarsi a favore della promozione di misure di allargamento della protezione sociale. Le scelte di movimenti sociali, associazioni, organizzazioni non governative e soprattutto dei sindacati (detentori, quest’ultimi, di ingenti risorse politiche e istituzionali) hanno potuto pertanto rinforzare la domanda socio-politica di protezioni di natura non contributiva ben al di là della forza elettorale dei potenziali beneficiari.
Movimenti dal basso e nuovi partiti
Mentre la mobilitazione di movimenti, associazioni e sindacati ha funzionato dal lato della “domanda”, per quanto riguarda l’offerta politica si è rivelato importante l’emergere di nuovi partiti capaci di sfidare quelli tradizionali della sinistra e competere con loro per il voto degli outsider. L’inserimento di schemi di reddito minimo nella propria offerta elettorale ha consentito loro, infatti, sia di mettere in cattiva luce davanti all’elettorato i tradizionali partiti socialdemocratici – che avrebbero rinunciato alla difesa dei ‘nuovi poveri’ e dei ‘perdenti della globalizzazione’ – sia di presentarsi agli elettori con soluzioni innovative di contrasto ai problemi emergenti.
La nascita di queste forze politiche, anche quando non raggiungano posizioni di governo, favorisce l’ingresso di simili proposte nell’agenda di policy, dando vita a dinamiche competitive tra le forze politiche potenzialmente favorevoli al rafforzamento della protezione di base. Se tali meccanismi sono evidenti nel caso italiano – si pensi al legame tra l’emergere del Movimento 5 Stelle, la proposta di introduzione del reddito di cittadinanza e l’approvazione del reddito di inclusione – situazioni analoghe si sono presentate in altri paesi europei così come in America Latina.
Le dinamiche sul lato della domanda e dell’offerta politica non sono reciprocamente indipendenti: al contrario, l’emergere di qualche forma di mobilitazione “dal basso” sembra essere una condizione necessaria allo sviluppo di una competizione fra i partiti su questi temi. Entrambi questi meccanismi possono tuttavia contribuire a favorire l’allargamento del perimetro dei sistemi di protezione sociale in un’epoca di austerità permanente.