Link all’articolo scientifico:
Bianchi F., Casnici N. & Squazzoni F. (2019). Solidarity as a byproduct of professional collaboration: Social support and trust in a coworking space. Social Networks, 54, 61-72
Li chiamano lavoratori nomadi, perché non hanno un ufficio. Sono consulenti aziendali, designer, sviluppatori web, specialisti della comunicazione e social media manager. Professionisti che fanno parte della cosiddetta “economia della conoscenza”, prestano servizi sulla base di competenze ad alto valore aggiunto senza vincolarsi a una singola azienda. Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza McKinsey, nel 2018 costituivano quasi il 30 per cento della forza lavoro europea e statunitense.
Sono lavoratori indipendenti, freelance. Sempre più spesso condividono spazi dicoworkinginsieme ad altri professionisti, per ammortizzare i costi. Sono la dimostrazione vivente che l’organizzazione del lavoro negli ultimi decenni è cambiata. L'immagine tradizionale di grandi aziende con eserciti di dipendenti che condividono spalla a spalla ampi spazi di lavoro ha lasciato il posto a relazioni lavorative più frammentate. Ma condividere compiti e luoghi con molte altre persone era, un tempo, l'ingrediente chiave per far emergere nelle società industrializzate le identità lavorative, permettendo alle persone di costruire strutture di solidarietà, di scambiarsi sostegno reciproco e di trovare un senso condiviso alle loro esistenze quotidiane.
Ora che un numero crescente di lavoratori affida le proprie competenze direttamente al mercato, dobbiamo aspettarci che il lavoro “nomade” comporti la fine della solidarietà nata sul luogo di lavoro? Forse no. Stando a quanto scoperto da un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Brescia e della Statale di Milano, proprio il sussistere di relazioni lavorative informali, veloci, dove basta una stretta di mano, senza il classico armamentario di contratti, clausole e penali potrebbe consentire a questi professionisti di testare l’affidabilità di possibili relazioni solidali anche al di fuori del contesto lavorativo.
Coworking e solidarietà
Per due anni tre sociologi delle università degli Studi di Brescia e Milano hanno cercato tracce di una diversa forma di solidarietà tra le numerose collaborazioni che i freelance intraprendono per fronteggiare le richieste dei clienti e l’instabilità del mercato. Finanziato in parte dalla Fondazione Cariplo, lo studio ha analizzato il comportamento di un gruppo di 29 lavoratori autonomi nel settore ICT (Information and Communication Technology) che condividono lo spazio dicoworkingbresciano della rete Talent Garden (TaG-BS).
Gli spazi dicoworkingsono uffici condivisi dove liberi professionisti, imprenditori o piccole agenzie affittano scrivanie per perseguire attività lavorative in maniera indipendente gli uni dagli altri, pur condividendo lo stesso ambiente. I servizi a cui si ha accesso in questi luoghi sono molteplici: servizi postali, connessione internet, angolo cottura, aree per consumare pasti, sale riunioni per incontrare clienti, iniziative formative.
“Se cercassi sostegno emotivo o materiale per qualcosa che non riguarda il lavoro, a chi ti rivolgeresti tra i tuoi coworker?” Questa la domanda rivolta dai ricercatori a chi condivideva gli spazi di TaG-BS. Dopo avere raccolto le loro risposte, i sociologi le hanno rappresentate, ricostruendo così graficamente la rete di relazioni tra “residenti” delcoworking.
Il risultato si può osservare in Figura 1: i punti rappresentano i residenti (resi anonimi) e le frecce permettono di risalire ai colleghi dai quali ogni residente si aspetta di ricevere sostegno. È emerso che gli intervistati si aspettano maggiore solidarietà dai colleghi con i quali, in passato, hanno intrattenuto collaborazioni professionali di successo, ma solo se queste collaborazioni avevano permesso di testare l’affidabilità lavorativa di una persona.
L’importanza del rischio e della fiducia
Collaborare, di per sé, non sembra sufficiente, neanche quando la collaborazione viene considerata di successo da entrambi i partner. Il numero di collaborazioni tra residenti di TaG-BS, infatti, è di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative di sostegno reciproco nella sfera privata (vedi Figura 2).
La maggior parte delle collaborazioni lavorative analizzate consiste nell’esternalizzazione di progetti già in corso. Sviluppatori che affidano ad altri alcuni aspetti della progettazione front-end di un sito web per risparmiare tempo da dedicare ad altri clienti, ad esempio. Oppure consulenti multimediali che commissionano a videomaker una clip promozionale per la strategia pubblicitaria dei loro clienti.
Molti studi di psicologia sociale sostengono che per le persone sia difficile sviluppare legami affettivi e di solidarietà con altri se l‘interazione avviene in un contesto di "scambio economico" (come può essere una transazione monetaria o una collaborazione professionale regolata da un contratto). Ma le collaborazioni tra freelance monitorate dai ricercatori bresciani e milanesi hanno rivelato una dinamica diversa.
I residenti di TaG-BS si sono spesso affidati ad accordi informali o contratti poco rigidi. Questo genere di accordi rende i rapporti di collaborazione più flessibili, dal momento che i partner possono modificare di continuo i termini della collaborazione senza sostenere costi amministrativi. D'altra parte, l'assenza di un contratto ha reso l'interazione più rischiosa: i partner potevano, in linea di principio, disattendere ai termini concordati informalmente senza il rischio di incorrere in sanzioni formali. Difficile rispettare una scadenza con un cliente se il collaboratore al quale era stata affidata parte del lavoro è in ritardo. Anche la qualità del lavoro svolto dal partner è cruciale nel valutarne l’affidabilità: i tempi previsti dalla pianificazione lavorativa sono spesso talmente stretti da non consentire ai subappaltanti di supervisionare le attività dei collaboratori prima della consegna al cliente finale. Proprio il rischio che il partner possa comportarsi in modo scorretto, però, sarebbe la chiave per instaurare con il collega qualcosa di più.
Discrezionalità implica fiducia
Se ci si deve occupare di un lavoro delicato e si decide di condividerlo in parte con qualcuno, si rischia che questa persona si comporti in modo poco professionale. Ma proprio la possibilità di essere vittima di scorrettezze ha permesso ai coworker di sperimentare personalmente chi poteva essere considerato un collaboratore affidabile e chi no. E proprio da queste persone i freelance intervistati si aspettavano di ricevere sostegno anche in ambiti extra-lavorativi.
Se, invece, le collaborazioni fossero state formulate all'interno di contratti strettamente vincolanti, il comportamento corretto di un partner sarebbe stato interpretato come la conseguenza del timore di sanzioni contenute nel contratto. Chi si rivela un partner affidabile senza la minaccia di sanzioni, al contrario, finisce per godere della fiducia degli altri non solo come collaboratore nell’attività professionale, ma anche come aiuto e sostegno nella vita privata. Contratti e obbligazioni formali sono spesso aspetti necessari alle attività lavorative: tuttavia, è proprio in conseguenza dell'informalità delle relazioni lavorative che possono essere rinvenute tracce di solidarietà nel mondo delle nuove professioni dell'”economia della conoscenza”.