Link agli articoli scientifici:
- Gaiaschi, C., & Musumeci, R. (2020). Just a Matter of Time? Women’s Career Advancement in Neo-Liberal Academia. An Analysis of Recruitment Trends in Italian Universities. Social Sciences, 9(9), 163.
- Gaiaschi, C. 2019. Same job, different rewards: the gender pay gap among physicians in Italy. Gender Work & Organization, 26(11), pp. 1562-1588.
- Gaiaschi, C. 2018. Gender inequalities in medical careers: findings from five hospitals in the Lombardy region. Italian Journal of Gender-specific Medicine, 4(2), pp. 73-78.
- Gaiaschi, C. 2017. Premiums and penalties among physicians in Italy: how gender affects the combined impact of marital and parental status on pay. Polis (1), pp. 97-126.
Le donne sono in prima linea nell’emergenza Covid. Negli ospedali, dove rappresentano il 77 per cento dei dipendenti del sistema sanitario nazionale, e nella ricerca, dove il 57 per cento dei biologi universitari è femmina. Eppure, le donne mancano o scarseggiano laddove si prendono le decisioni per gestire la pandemia. La totale assenza di donne all’interno del comitato tecnico scientifico della protezione civile, così come la loro sotto-rappresentazione all’interno della task-force presieduta da Vittorio Colao, sono state di recente al centro del dibattito pubblico. Numerose scienziate, parlamentari, giornaliste e cittadine hanno dato il via a diverse campagne – tra cui l’appello virale sui social con l’hashtag #datecivoce, ripreso anche dal New York Times – per chiedere un maggiore equilibrio all’interno di questi organi.
La richiesta è stata infine accolta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha integrato le due squadre con undici esperte. Il lieto fine è certamente una buona notizia, anche se resta l’amaro in bocca per l’ennesimo bagno di realtà: l’emergenza non ha fatto che scoperchiare, esacerbandolo, lo stato dell’arte, mettendo in luce le esistenti asimmetrie di genere all’interno del mercato del lavoro e nelle professioni scientifiche più in particolare.
Un’accademia poco al femminile
Analizzando i dati del Miur (ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) sul reclutamento delle donne in Accademia, si scopre che il trend delle assunzioni delle professoresse ordinarie negli ultimi vent’anni è sostanzialmente piatto, mentre quello delle professoresse associate registra un leggero miglioramento ma solo negli anni più recenti – quelli successivi alla riforma Gelmini – e a fronte di uno speculare peggioramento a livello di ricercatrici. Ciò vale per l’intero corpo docente come per l’area disciplinare delle scienze mediche.
Il dato, puramente descrittivo, dovrebbe certamente essere analizzato alla luce della composizione di genere dei pool dei candidati, un’informazione che il Miur non raccoglie in forma aggregata.
Tuttavia, indica chiaramente che la cosiddetta “femminilizzazione” di queste due fasce è dovuta, in gran parte, a un fenomeno di tipo demografico, ovvero al pensionamento delle coorti più anziane, a maggioranza maschili, suggerendo con ciò che le asimmetrie di genere non sono un mero retaggio del passato ma continuano a riprodursi.
Donne in camice: hanno voti più alti, ma meno di una su cinque diventa chiurgo
Un’analisi certamente più raffinata emerge dalla ricerca condotta sulle carriere mediche nell’ambito del progetto europeo Stages – Structural Transformation to Achieve Gender Equality in Science – coordinato dal centro Genders dell’Università degli Studi di Milano. L’indagine, condotta attraverso un questionario somministrato via mail ai medici di cinque ospedali lombardi, di cui tre pubblici e due privati – Policlinico di Milano, Ospedale di Legnano, Sant’Anna di Como, S. Donato e un quinto nosocomio che ha chiesto di rimanere anonimo – ha consentito di raccogliere e analizzare informazioni su oltre mille rispondenti.
Una semplice analisi delle differenze significative dei valori medi di uomini e donne ci dice che le donne tendono a laurearsi con voti migliori degli uomini mentre questi ultimi tendono a fare più formazione professionale una volta entrati nel mercato del lavoro. D’altra parte, le donne lavorano tre ore la settimana in meno rispetto ai colleghi maschi, differenza che però si riduce a poco più di un’ora se si toglie la libera professione dal computo.
La differenza di reddito “unadjusted” (non regolata, ottenuta sottraendo i redditi medi) è di 23mila euro l’anno, differenza che risente anche della diversa distribuzione lungo le tappe della carriera e della più giovane età della popolazione femminile, indice della recente femminilizzazione della professione. Persistono fenomeni di “segregazione orizzontale” – solo il 16 per cento delle donne lavora in chirurgia – e fenomeni di “segregazione verticale”, nella misura in cui solo il 6 per cento delle donne è primario, contro il 19 per cento degli uomini.
Per carriera, più donne tra i medici rinunciano alla famiglia (con stipendi inferiori)
Guardando alla sfera famigliare, le donne tendono a sposarsi (o convivere) meno degli uomini – il 58 per cento è sposata o convivente contro il 70 per cento degli uomini – e a non avere figli con una frequenza maggiore (39% vs 24%). Un forte squilibrio sussiste infine nel lavoro domestico e di cura: le donne vi dedicano 25 ore la settimana contro le 16 dei colleghi maschi.
Per capire se esistono discriminazioni di genere all’interno della popolazione, i dati sono stati analizzati mediante modelli di regressione che consentono di “controllare” per le stesse caratteristiche (osservate) di uomini e donne. In poche parole, di confrontare uomini e donne “equivalenti”. Di per sé infatti le descrittive dicono poco, nella misura in cui, per esempio, la scarsa presenza di donne ai vertici della carriera risente (anche) della loro più giovane età, così come il reddito risente della loro scarsa presenza tra i primari, che guadagnano di più. Insomma, per poter parlare di disuguaglianze è necessario capire se un uomo e una donna con le stesse caratteristiche osservate hanno o meno le stesse opportunità. In questo caso: se guadagnano lo stesso stipendio e se hanno la stessa probabilità di promozione.
I risultati della regressione lineare semplice sul reddito ci dicono che, a parità di condizioni e al netto delle variabili non osservate, le donne guadagnano il 18 per cento in meno degli uomini. Del 38 per cento di pay gap“unadjusted”, dunque, la metà circa è dovuto a differenze nelle caratteristiche osservabili, mentre la restante parte è dovuta alla discriminazione o a caratteristiche non osservate.
Pavimenti appiccicosi più che tetti di cristallo
Considerando invece il tema della progressione di carriera, le analisi di regressione logistica sono state condotte dopo aver armonizzato le scale gerarchiche dei diversi ospedali – tre pubblici e due privati – in un’unica scala composta da tre livelli (medico di primo livello, vice-primario e primario), usata come variabile dipendente. I risultati ci dicono che non sussiste uno svantaggio di genere statisticamente significativo nel passaggio da vice a primario, ma solo nella transizione dal primo livello a vice (-41 per cento l’odds ratio, che misura il rapporto tra la probabilità di diventare vice e la probabilità contraria di non diventarlo).
In sostanza, una volta diventate vice-primario, le donne non esperiscono maggiori difficoltà a diventare primario rispetto ai colleghi uomini. Il vero “ostacolo” è nella fase precedente, quando si tratta cioè di diventare vice. Utilizzando le metafore tanto in voga nello studio della segregazione verticale, ci troviamo quindi davanti non tanto a un “tetto di cristallo” (glass ceiling), inteso come un ostacolo posto nelle fasi apicali della carriera, bensì a dei “pavimenti che incollano” (sticky floors) e che impediscono a chi è nelle fasi iniziali di passare a quelle intermedie.
Un lavoro a caro prezzo
Che non sussista, quantomeno, un tetto di cristallo sembrerebbe una buona notizia. Tuttavia, la questione è molto più complessa. Il fatto che le donne non esperiscano uno svantaggio nel passaggio da vice a primario potrebbe essere, in parte, dovuto proprio al fatto che lo esperiscono nel passaggio precedente. In parole più semplici: avendo già vissuto una selezione più dura (degli uomini) nel passaggio dal primo livello a quello di vice, le donne che arrivano ad essere vice – e che quindi compongono il pool di candidate alla posizione di primario – sono mediamente più “selezionate” – ovvero mediamente più qualificate e competenti – dei loro colleghi uomini.
Per questo, come suggeriscono Myra Ferree e Bandana Purkayastha, l’assenza del cosiddetto tetto di cristallo non necessariamente significa maggiore uguaglianza di genere nelle posizioni apicali. O meglio: l’uguaglianza di genere sussiste ma solo per un pool ristretto, e iper-selezionato, di donne.
Un’evidenza che porta con sé diversi risvolti, sia in termini di uguaglianza tra le donne sia in termini di “costi” – quanto a vita famigliare e conciliazione vita-lavoro – per quelle (poche) che ce la fanno. La parità di genere nelle professioni tradizionalmente “maschili” ha un prezzo elevato, che poggia in buona misura sulle spalle delle donne e sulle loro strategie di adattamento.