Link all’articolo scientifico: Bonini T. e Gandini A. (2019). “First Week Is Editorial, Second Week Is Algorithmic”: Platform Gatekeepers and the Platformization of Music Curation, Social Media+ Society, 5(4), 2056305119880006.
C’erano una volta i negozi di musica, pieni di dischi e audiocassette, e a influenzare i gusti del pubblico ci pensavano i giornalisti, le radio, i critici musicali. Poi, nei primi anni Duemila, sono arrivati i servizi di condivisione peer-to-peer – qualcuno si ricorderà di Napster – ed è stato un momento di rottura: la musica si è dematerializzata, la varietà di contenuti musicali disponibili si è moltiplicata. Oggi si parla di “piattaformizzazione”: l’ascolto di canzoni è di nuovo mediato, dalle piattaforme di streaming musicale appunto. Come funzionano app tipo Spotify o Apple Music? E chi ci suggerisce a cosa prestare orecchio mentre sudiamo in palestra o quando proviamo a rilassarci per preparare un esame? Uno studio congiunto tra l’Università di Siena e l’Università degli Studi di Milano – basato su un approccio di etnografia multi-situata, sviluppato da Tiziano Bonini e Alessandro Gandini – ha indagato le logiche alla base del consumo musicale attraverso le piattaforme digitali. Ne è emersa una nuova figura professionale, quella del curatore musicale, e un continuo gioco di equilibri tra scelte editoriali e suggerimenti dettati da algoritmi. Ecco che cosa si nasconde dietro la nostra playlist preferita.
In questo settore, il lavoro umano si fonde con il funzionamento automatizzato delle piattaforme. E i curatori musicali sono i nuovi “gatekeeper", decidono cioè quale musica raggiunge il grande pubblico e quale invece passa in sordina. La ricerca suggerisce di inquadrare questa attività di gatekeeping (ossia di filtro) come una forma di potere “algo-toriale" – dalla fusione di algoritmico e curatoriale – che ha la capacità di condizionare significativamente le preferenze di ascolto dei consumatori di musica.
I curatori musicali oggi: 400 editor per le tendenze di tutto il mondo
Il ruolo di curatore musicale non esisteva nelle piattaforme di streaming musicale prima del biennio 2014-2015. Alcuni studiosi collocano questa svolta curatoriale subito dopo che Spotify ha acquisito Tunigo ed Echo Nest, nel 2014, otto anni dopo la fondazione dell'azienda. Google Play Music ha iniziato ad assumere curatori umani alla fine del 2014, tre anni dopo la sua nascita, mentre Apple Music si è rivolta a curatori umani per la prima volta nel 2015. C’è chi sostiene che Spotify sia la piattaforma che impiega il maggior numero di curatori (circa 150),Google Play avrebbe 20 curatori a tempo pieno più altri liberi professionisti, mentre Apple Music ne ha "più di 12", oltre ad altri liberi professionisti. Nel 2016 Deezer ha rivelato a The Guardian di aver impiegato 50 curatori. Questi numeri non sono completamente aggiornati e i dati su altri servizi, come Tidal e Amazon Music, non sono disponibili.
Sembra tuttavia corretto stimare che attualmente ci siano tra 300 e 400 editor su scala globale, distribuiti principalmente tra New York (Google Play Music, Spotify, Tidal, Amazon Music), Los Angeles (Apple Music) e Londra (Spotify, Deezer, Google Play Music, Apple Music). Rappresentano una élite globale di curatori musicali. Questi specialisti della musica assunti da piattaforme digitali hanno acquisito un potere rilevante: supervisionano e decidono circa l'inclusione o l'esclusione di brani musicali e artisti da playlist di successo. Sono per lo più laureati – abbastanza diversi in termini di genere – e nonostante la loro dispersione geografica sono perlopiù coerenti nel resoconto delle pratiche e delle culture del loro lavoro.
Il ruolo delle playlist e la minaccia dell’invisibilità
Di fondamentale importanza in questo contesto è un nuovo oggetto tecnologico e culturale: la playlist. Raccolte di brani confezionate ad hoc in base al genere musicale, all’artista, all’umore del momento sono il servizio distintivo – la merce – che le piattaforme di streaming musicale offrono ai propri utenti. Le playlist rappresentano l'output dell'attività di intermediazione da parte delle piattaforme: significa che il lavoro curatoriale che si svolge nelle piattaforme di streaming musicale è il servizio chiave che esse offrono agli utenti. Dallo studio dei due atenei italiani i curatori emergono come una nuova classe di potenti platform gatekeepers, che danno significato e valore a determinati brani musicali e artisti e mediano gusti, stati d'animo e stili di vita, convertendoli in preziosi oggetti di consumo sotto forma di playlist.
I curatori musicali si distinguono in senior e junior. Chi fa questo mestiere da più tempo è anche responsabile della strategia dei contenuti dell'azienda per un genere musicale specifico (ad esempio "responsabile globale della musica latina") e lavora alla creazione e alla gestione delle playlist più popolari. Ogni curatore è un esperto in un genere o sotto-genere in paerticolare e il suo lavoro quotidiano consiste sostanzialmente nell'assemblare brani diversi in playlist. Di solito, però, appartiene a un team curatoriale specifico con cui deve discutere le sue scelte editoriali.
Allo stesso tempo, il lavoro dei curatori è inestricabilmente legato alle logiche algoritmiche che regolano queste piattaforme. Dalla combinazione di questi due elementi nasce una forma di potere "algo-toriale", che combina cioè decisioni prese sulla base di big data e logiche algoritmiche, con decisioni tipicamente curatoriali. La platformizzazione del consumo musicale impone nuovi "regimi di visibilità" e intensifica ciò che la studiosa Taina Bucher chiama la "minaccia dell'invisibilità": algoritmi e curatori decidono e disciplinano la visibilità di un artista all'interno della piattaforma.
La logica editoriale e quella algoritmica, nella realtà, non si trovano mai completamente separate: c'è sempre un attrito tra le due. Sono estremamente difficili da districare nella pratica quotidiana delle piattaforme di musica digitale: si accatastano insieme in modi interessanti. L'attività di compilazione di playlist è allo stesso tempo guidata dal punto di vista editoriale e governata dall'algoritmo.
Le decisioni editoriali, tuttavia, contano ancora molto. È stato chiesto a uno degli informatori coinvolti nello studio di valutare approssimativamente in che modo il gusto personale, le scelte editoriali e i suggerimenti algoritmici hanno influenzato il suo lavoro curatoriale. Ha risposto che il suo lavoro era guidato “dal gusto personale al 10 per cento, al 40 da logiche curatoriali e al 50 per cento dall'algoritmo”. Il peso del gusto personale nell’orientare le scelte dei programmatori musicali non è scomparso ma si è notevolmente ridotto, a favore della pressione editoriale e dell'assistenza fornita da software.
Il problema della scatola nera
Resta ancora molto da indagare in questo contesto, e in generale per quanto riguarda lo studio delle piattaforme digitali. Questo compito è reso più difficile dalla chiusura delle piattaforme allo scrutinio esterno, un problema identificato – in particolare in relazione all’infrastruttura algoritmica – attraverso la metafora della “black box” o scatola nera. Lo studio sviluppato da Milano e Siena mostra però come l’accesso ai codici e agli algoritmi che regolano le piattaforme sia solo un aspetto di un problema ben più ampio, che riguarda l’accesso al campo di ricerca.
I ricercatori devono avere accesso al campo delle piattaforme online e devono poter utilizzare strumenti di ricerca etnografica e qualitativa. Una volta dentro, sarà possibile scoprire notevoli differenze tra loro (nonché pratiche sorprendenti). Gli algoritmi rappresentano un aspetto rilevante fra molti in un contesto che, in ultima analisi, è ancora una volta una questione di potere. Un potere che non è così diverso, nella sua natura, da quello esercitato dai gatekeeper precedenti, ma che differisce da esso in termini di scala ed efficienza. Ulteriori ricerche dovrebbero esaminare i rischi che questa concentrazione di potere nelle mani di un gruppo di poche eletti pone alla cultura e alla società.