Link all’articolo scientifico:
- Arfini E., Ghigi R. e Magaraggia S. (2019). Can feminism be right? A content analysis of discourses about women by female Italian right-wing politicians. Rassegna Italiana di Sociologia, 60(4), 693-719.
Dovremmo tutti essere femministi. A dirlo non è una manifestante sessantottina, ma una maglietta firmata Christian Dior acquistabile online sul sito della maison francese. Prezzo al pubblico, 860 dollari. In cotone bianco, con una scritta nera: “We should all be feminists”, appunto. Segno che il discorso femminista è cambiato negli ultimi cinquant’anni, si è espanso oltre i metodi convenzionali di mobilitazione dei movimenti e delle culture politiche di sinistra. Esiste allora anche un femminismo di destra? Secondo uno studio qualitativo sviluppato da studiose e studiosi della Statale di Milano, dell’università Bicocca e dell’Università di Bologna no, saremmo semmai di fronte a un ossimoro. Sono stati analizzati i discorsi di tre donne parlamentari di destra – Giorgia Meloni, Flavia Perina e Daniela Santanchè – nell’arco di due legislature, da aprile 2008 a marzo 2018. Ecco che cosa è emerso.
Da Beyonce a Ivanka Trump, un femminismo trasversale
Nel Nord del mondo, il femminismo della “seconda ondata” – quello dell’impegno civile degli anni Settanta, che ha permesso alle donne conquiste in campo legislativo, nel mondo del lavoro, nella rappresentanza politica, nella produzione culturale – non esiste più. Le mobilitazioni femministe di allora hanno lottato per modificare la divisione sessuale del lavoro, l’organizzazione della riproduzione sociale, le forme di cittadinanza, la qualità della rappresentazione culturale. Un discorso tradizionalmente associato a politiche progressiste e di sinistra. Oggi però di genere e di femminismo parla Beyoncé come Ivanka Trump. Il brand Dove – gigante di prodotti per l’igiene personale del gruppo Unilever – promuove campagne educative sulla bellezza come fonte di sicurezza e autostima. Assieme a questa espansione in senso trasversale di messaggi a carattere femminista sono aumentate anche le contraddizioni e i paradossi che derivano dall’usare il femminismo, inteso come progetto sistemico di giustizia sociale, in campi che alimentano esclusione, oppressione e diseguaglianza.
Il dibattito sul genere e sul femminismo si è esteso alla cultura mediatica delle celebrità e al neoliberismo, così come alle culture politiche della destra conservatrice. Diversi partiti di destra, oggi, vedono la partecipazione di donne anche in ruoli di leadership. Ne sono esempi Marie Le Pen in Francia, Rocio Monasterio in Spagna, Frauke Petry in Germania, Beata Szydlo in Polonia e Siv Jensen in Norvegia. Anche in Italia politiche di destra hanno inserito nel proprio vocabolario quotidiano la parola “femminismo”. Giorgia Meloni, Flavia Perina e Daniela Santanchè ne sono un esempio. Vediamo come e con quali risultati.
Il contesto: crisi economica e populismi
La crisi cominciata nel 2008 a partire dal settore finanziario ha esacerbato diseguaglianze di classe e di genere, coinvolgendo a cascata il campo economico, fiscale, politico: ha esposto molte famiglie del ceto medio al rischio di impoverimento e minato la fiducia nei governi democratici, nelle istituzioni, nei loro rappresentanti. Nuove forme di populismo hanno acquisito visibilità, mobilitato risorse, ottenuto consensi. Sia la crisi sia i populismi hanno una dimensione strutturale di genere: sono vissuti in modo diverso da uomini, donne e da persone non cisgender (cioè la cui identità di genere non è allineata al sesso assegnato) o non eterosessuali, e – come fenomeni sociali – presuppongono e consolidano una struttura di genere precisa, binaria ed eterosessuale. L’aumento della precarietà e l’impoverimento hanno colpito in maniera diseguale uomini e donne, sfavorendo le seconde. Al contempo si è assistito a un aumento della femminilizzazione del lavoro, in particolare nel terzo settore. È aumentata, infatti, la tendenza a valorizzare qualità tradizionalmente associate al femminile, quali la capacità di mediazione nei conflitti relazionali, di conciliare vita privata e lavoro, di lavorare sulle proprie emozioni e sulle emozioni dei clienti.
In Europa ma anche in Russia e negli Stati Uniti, una galassia di gruppi di estrema destra, di fondamentalisti cristiani, di associazioni contro l’aborto e per la conservazione della famiglia tradizionale, hanno lanciato campagne anti-femministe e promosso politiche sessiste e omolesbotransfobiche. In reazione agli spostamenti delle agende politiche transnazionali consacrati già dalle conferenze Onu del 1993 al Cairo (International Conference on Population and Development) e del 1995 a Pechino (World Conference on Women) hanno promosso politiche conservatrici in materia di diritti riproduttivi e cittadinanza sessuale anche attaccando la ricerca scientifica sul genere, etichettandola come “ideologia del gender” e come minaccia alla famiglia tradizionale.
Alla fine del 2008, su 130 nazioni monitorate, l’Italia era al 67° posto del Global Gender Gap Report, dossier del World Economic Forum che fotografa la differenza di genere nel mondo. Dieci anni dopo, nel 2018, i paesi considerati salgono a 149, ma il Belpaese resta basso in classifica, al 70° posto. Sullo stesso arco di tempo si concentra lo studio degliatenei lombardi e bolognese. Sono anche gli anni del IV governo Berlusconi, una stagione politica che, pur non avendo affrontato particolari snodi a livello legislativo in merito alla condizione femminile, è stata densa di implicazioni di genere. Berlusconi ha portato al potere uno stile di leadership politica maschile, incline alla spettacolarizzazione e sessualizzazione della politica. Diverse mobilitazioni femministe hanno reagito agli scandali sessuali in cui venne coinvolto l’allora Presidente del Consiglio, così come a una cultura televisiva intrisa di oggettificazione e sessualizzazione delle donne.
Il metodo: un’indagine qualitativa
È in questo contesto che Giorgia Meloni, Flavia Perina e Daniela Santanchè scrivono di condizione della donna e femminismo e diventano portavoce sulle questioni di genere nei rispettivi partiti. Da un’analisi qualitativa dei loro libri – Noi crediamo. Viaggio nella meglio gioventù d’Italia di Giorgia Meloni, Senza una donna. Un dialogo su potere, famiglia, diritti nel Paese più maschilista d’Europa di Flavia Perina (con Alessia Mosca) e Sono una donna, sono la Santa di Daniela Santanchè – ha preso il via lo studio, completato da circa 3000 “notizie” ricavate dal database LexNex (composto da agenzie Ansa e articoli su quotidiani nazionali). I risultati sono stati codificati con l’aiuto di un software specifico. Tre sono i temi emersi dal materiale esaminato: le interpretazioni della differenza sessuale e del femminismo della seconda ondata; il ruolo delle donne nella famiglia e nel mercato del lavoro; i diritti riproduttivi.
Si parla di diritti ma si ignorano le disuguaglianze
Nei discorsi di queste esponenti politiche i diritti delle donne sono un punto ricorrente, ma non è il femminismo il progetto politico ritenuto più adatto a difenderli. Il femminismo, anzi, sarebbe colpevole di aver diffuso una cultura responsabile del disfacimento della famiglia tradizionale e dell’oggettificazione neoliberale del corpo delle donne. Il tema dei diritti delle donne insomma è riconosciuto come cruciale ma non è il femminismo il progetto politico ritenuto più adatto a difenderli, come anche nota ad esempio Sara Farris in tema di utilizzo strumentale dei temi del femminismo a supporto di politiche autoritarie e contro i migranti (femonazionalismo).
Per quanto riguarda il ruolo delle donne nella famiglia e nel mercato del lavoro, invece, i discorsi sono eterogenei. Meloni e Perina si concentrano sul supporto alla nozione tradizionale di famiglia, funzionale alla cornice nazionalista. Santanchè, dal canto suo, sottolinea il potenziale emancipatorio dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Come? Mirando alle posizioni di potere che sarebbe possibile raggiungere grazie a un’adeguata capacità e caparbietà individuale. Sta alle donne puntare in alto e avere la forza di resistere fino al vertice, insomma. Ciò che accumuna questi discorsi è la mancanza di un’analisi strutturale delle diseguaglianze, come conseguenza della divisione sessuale del lavoro. L’attuale organizzazione del lavoro riproduttivo, infatti, impone di sostenerne i costi privatamente, esternalizzandolo – per chi se lo può permettere – o rinunciando a lavoro e/o carriera per le altre. In entrambi i casi il lavoro di riproduzione e cura è svolto dalle donne: dalle mogli e madri non pagate per farlo o dalle lavoratrici domestiche (spesso non bianche) pagate (poco) da chi ha potuto scegliere di entrare nel mercato del lavoro. Nei discorsi di queste esponenti politiche di destra, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro o al lavoro non salariato è invece descritta come una scelta individuale, sempre possibile in ragione delle qualità innate delle donne, siano esse la propensione alla cura o la capacità di conciliare in maniera flessibile vita e lavoro.
Analogamente, la discussione sulla riproduzione (in particolare sull’aborto e sulla maternità) fa perno su una visione pre-sociale, ontologica e essenziale delle donne. Si tratta di un tema particolarmente importante nel contesto italiano, perché l’Italia ha uno dei tassi di fertilità più bassi in Europa (1.37 figli per donna). L’accesso all’aborto è allora visto come un fallimento delle politiche che dovrebbero supportare il desiderio di maternità, che viene dato per scontato in quanto espressione di una supposta propensione naturale delle donne alla genitorialità.
Ingredienti liberali, cornice conservatrice
Lo studio mostra da un lato che differenze di genere e i diritti delle donne sono esplicitamente incorporati nei discorsi di queste esponenti politiche di destra e dall’altro come questa integrazione sia segnata da gravi contraddizioni e limiti. “Emancipazionismo complementarista”, così viene definito: un mix di elementi liberali e neoliberali inseriti in una cornice conservatrice. Le politiche al vaglio supportano il modello di famiglia basata sul lavoro salariato dell’uomo e riproduttivo della donna, accettano alcune forme di conciliazione vita-lavoro, tollerano l’espressione della sessualità. Ma le soluzioni che propongono non affrontano le dimensioni strutturali ed economiche dei problemi: non c’è proposta di cambiamento o trasformazione. La minor presenza di donne nel mercato del lavoro, per esempio, secondo quanto si legge nei testi è l’esito non tanto di barriere di accesso strutturali, quanto piuttosto della scelta compiuta dalla maggior parte delle donne di assecondare la propria predisposizione naturale al lavoro di cura.
Ecco quindi un’agenda politica volta alla conservazione. Incorporare in modo selettivo alcuni temi storicamente discussi dal femminismo non fa del femminismo un discorso di destra, piuttosto rende le donne e la questione femminile oggetto del capitale politico della destra. Manca una visione redistributiva della ricchezza, mentre il tentativo di inserire temi femministi in una visione gerarchica della società è contraddittorio: per questo il femminismo di destra è un ossimoro.