Link all’articolo scientifico:
- Corrado Fumagalli, Populist Appeals and Populist Conversations. Global Justice Theory Practice Rhetoric 12 (2).
La cronaca politica degli ultimi mesi ha registrato repentini cambi di rotta. Tanti riconoscono in questo zigzagare uno strano miscuglio di opportunismo e necessità. Altri si sorprendono per la disinvoltura con cui capi e generali di partito si adattano al momento politico. Soprattutto la banda dei populisti è stata messa sotto attacco a causa di velocissimi ripensamenti e dichiarazioni spesso contradditorie. Periodi come questo, se visti da una prospettiva filosofico politica, possono aiutare a fare chiarezza su alcuni meccanismi della comunicazione populista.
Una lettura “dinamica” della rappresentanza democratica e, nello specifico, della rappresentanza democratica dei populisti, può aiutare nell’intento. Ecco come.
Come crearsi un elettorato (e cambiare posizione rispetto ai propri elettori)
In un articolo di qualche anno fa Michael Saward teorizzava la cosiddetta shape shifting representation, vale a dire quell’insieme di dichiarazioni e gesti con cui i rappresentanti politici si posizionano (e cambiano posizione) rispetto a uno o più gruppi di elettori. Si tratta di una lettura dinamica della rappresentanza basata su indicatori spaziali (dove per “spazio” s’intende qualcosa come una constituency, cioè un gruppo di persone che condivide interessi e posizione politica) e temporali (dove per “tempo” s’intende il verificarsi o meno di due o più eventi simultaneamente). Saward, combinando questi elementi, dà conto dei modi attraverso cui lo stesso politico veicola messaggi contrastanti – o il medesimo messaggio con connotazioni diverse – a più pubblici. Un rappresentante politico shape shifting, afferma Saward, dovrebbe quindi sembrare cose diverse per persone diverse in tempi diversi.
Si pensi, per esempio, a un parlamentare di idee progressiste e a favore di una nuova politica ambientale. Poiché in un collegio parecchi elettori si sono mobilitati contro l’installazione di un impianto eolico, il rappresentante modulerà il suo messaggio, magari affermando che «quella tecnologia non è adatta al nostro territorio». In un altro distretto, lui stesso potrebbe sostenere che «l’eolico è la cosa giusta da fare». Un altro rappresentante, facendo uso della celeberrima dog whistle politics – quella pratica per cui un messaggio apparentemente neutrale assume significati diversi in audience differenti – potrebbe attrarre gruppi contrapposti quando questi recepiscono lo stesso messaggio in maniera diversa.
La teoria di Saward spiega i salti, anche sorprendenti, dei rappresentanti politici, così come tutti quegli stratagemmi linguistici con cui un politico prova a fare colpo su più gruppi simultaneamente.
I veri populisti costruiscono un’immagine di popolo
Il dibattito teorico-politico ha sottolineato più volte la facilità e il disimpegno ideologico con cui i leader populisti correggono il proprio posizionamento per stabilire connessioni sempre più dirette con il pubblico. Piccoli e grandi movimenti si attuano attraverso diverse forme comunicative che, per semplicità, possono essere definite “appelli populisti”. Dichiarazioni pubbliche, interviste, testi scritti, comizi ne sono un esempio.
I leader populisti, però, ricorda la letteratura sul tema, non cercano solo di fare colpo su un gruppo limitato di elettori. Essi, ammesso che siano populisti nel vero senso della parola, costruiscono un’immagine di “popolo”. Ma perché tale immagine sia credibile dovrebbe essere rappresentativa di un complesso numeroso di cittadine e cittadini che, insieme, mettono da parte i loro disaccordi per sposare una certa identità collettiva. La letteratura sul populismo sottolinea in proposito che la comunicazione dei populisti mira a unificare la più ampia pluralità di istanze e a costituire una chiara demarcazione tra insiders e outsiders, tra chi fa parte del gruppo e chi no.
Un leader forte per un popolo credulone (o forse no)
Un’applicazione troppo letterale della teoria di Saward porterebbe a ricondurre posizionamenti e riposizionamenti solo alle intuizioni del rappresentante politico. Allo stesso modo, soprattutto davanti alle sempre più numerose fluttuazioni improvvise e all’indole accentratrice di alcuni populisti, molta della teoria politica contemporanea ha posto l’accento sul carisma e il personalismo del politico. Così, il populismo può essere concepito come un’ideologia leggera: uno stile, una cornice discorsiva, una logica o una distorsione delle democrazie liberali. Pur molto distanti nei presupposti filosofici e nelle implicazioni normative, queste prospettive riaffermano quasi sempre la centralità del parlante.
Questo approccio dimentica, però, la speciale e immediata relazione tra pubblico e leader populista. Il pubblico, in questo caso, non sarebbe altro che una moltitudine manipolabile e un po’ credulona. Se il leader detta le regole e si posiziona a piacere nel dibattito pubblico, i suoi elettori sono destinatari passivi capaci di esprimersi, in pratica, solo al momento del voto.
Eppure proprio l’idea che un rappresentante politico debba sapersi adattare a diversi tipi di elettorato sembra presuppore l’esistenza di un continuo botta e risposta in cui elettori ed eletti danno e ricevono qualcosa. I leader populisti, diceva già Michael Kazin, costruiscono “il popolo”. Come? Selezionando questioni specifiche, termini, temi, tropi e immagini nella società. Da questo punto di partenza cercano di instillare un senso di appartenenza attraverso appelli che possono agire simultaneamente su gruppi elettorali assai diversi tra loro.
Chi conversa coopera
Occorre allora elaborare una strategia alternativa per rendere conto della relazione tra audience e leader populisti. Una via porta a concepire rappresentanti e rappresentati come poli di una conversazione in cui tutti danno e ricevono qualcosa.
La conversazione è un’interazione cooperativa orientata a un fine condiviso, dilatata nel tempo, in cui tutte le parti in gioco recitano il ruolo del destinatario e il ruolo del parlante.
L’appello populista è un atto linguistico con cui un rappresentante politico prova a fare due cose in un colpo solo: 1) colmare il divario tra sé e gli elettori; 2) rinforzare i legami tra diversi gruppi di elettori che non si conoscono tra loro, che potrebbero essere in disaccordo su moltissimi aspetti della vita in comune, che decidono di mettere tra parentesi divergenze anche significative, che sposano una certa identità collettiva.
Proprio per l’intento unificante dei loro appelli, i populisti dovrebbero prestare particolare attenzione al sentimento generale e dimostrare familiarità con le aspettative del pubblico. Ecco allora che il pubblico può delimitare e modificare il campo di accettabilità al punto che alcuni suoi input, anche quando indiretti e scomposi, funzionano come un particolare tipo di atto linguistico: i cosiddetti conversational exercitives (atti linguistici che consistono nell’esercitare dei poteri all’interno di una conversazione), letteralmente esercitivi conversazionali, cioè “quelli che esercitano il discorso”.
In una conversazione, gli exercitives stabiliscono ciò che può essere proferito. Di solito rivelano uno squilibrio di potere in favore di chi detta le regole. Una delle parti, più o meno arbitrariamente, si arroga il diritto di generare norme e quindi stabilire, anche solo momentaneamente, la direzione di una certa interazione discorsiva.
C’è un pubblico dietro ogni cambio di casacca
Allora, se si accetta l’idea che la relazione audience-leader possa essere letta come una conversazione, se accettiamo che gli appelli populisti vogliono fare due cose in un colpo solo (colmare il divario tra rappresentante e rappresentati; rinforzare i legami tra diversi gruppi di elettori), se accettiamo che gli input del pubblico possono contare come esercitivi conversazionali, si capisce perché non si possano biasimare solo i politici per tutto questo saltare da un lato all’altro della barricata.
Da questa prospettiva, il pubblico stabilisce cosa vale come mossa conversazionale corretta. Il politico populista entra quindi in una logica di autorità ribaltata in cui siamo noi, l’audience, a determinare i tempi e i modi dei suoi cambi d’idea.