Link ai testi scientifici:
- P. G. Van Wolleghem, The EU’s Policy on the Integration of Migrants. A Case of Soft-Europeanization?, Palgrave macmillan (2019);
- P. G. Van Wolleghem, Why Implement without a Tangible Threat? The Effect of a Soft Instrument on National Migrant Integration Policies, Journal of Common Market Studies (2017);
- P. G. Van Wolleghem, Where is the EU’s Migrant Integration Policy Heading?, International Review of Public Policy, 1:2 (2019) pp. 218-237.
Per approvare un provvedimento che riguarda i migranti bisogna essere tutti d’accordo. Cosa succederebbe in Italia – in Francia, in Germania o in qualsiasi altro Paese europeo – se fosse vero? Paralisi. Eppure, quando si guarda alle istituzioni europee, per anni è stato così: era richiesta l’unanimità. Ora la maggior parte delle decisioni in materia sono prese a maggioranza qualificata – grazie a un aggiornamento nell’iter legislativo iniziato nel 2004 e portato a termine nel 2009 – ma le competenze formali dell’Unione, quando si tratta di integrare gli stranieri, sono ancora poche. Ecco perché le politiche comunitarie per l’integrazione elaborate negli ultimi vent’anni dall’Ue hanno prodotto effetti difficili da comprendere.
Iniziativa europea e prerogative nazionali: un equilibrio fragile
La politica di integrazione degli immigrati dell’Ue è iniziata con il piede sbagliato. Pur dedicando un intero capitolo alle politiche comuni sull’immigrazione, il Trattato di Amsterdam (1997) non conferiva all’Unione nessuna competenza esplicita per quanto riguardava l’integrazione dei cittadini stranieri. Inoltre, l’adozione di misure legali sull’immigrazione avrebbe richiesto un voto all’unanimità da parte degli stati membri. La combinazione di questi due elementi ha ridotto considerevolmente la possibilità che si affermasse una politica europea di integrazione.
Le caratteristiche dell’architettura istituzionale condizionano fortemente la creazione di un ambito di policy a livello europeo. Anche implementare i provvedimenti approvati nel rispetto di tale architettura è difficile. Una politica viene promossa a livello europeo quando gli stati membri decidono collegialmente di affrontare un problema collettivo in modo coordinato. Gli stati stabiliscono anche le modalità di coordinamento. Nel caso delle politiche di integrazione degli immigrati si era, come già detto, optato per l’unanimità.
L’unico modo per ottenere un consenso unanime, tuttavia, è che a ciascun stato sia lasciata ampia flessibilità rispetto agli obblighi derivanti dalla legislazione europea. In altri termini occorre che le disposizioni approvate siano poco rigide. L’adozione successiva a livello nazionale – necessaria per rendere effettive le decisioni prese a livello europeo – finirà pertanto per essere spesso discrezionale, e le capacità di controllo da parte della Commissione molto indebolite.
Il fallimento degli strumenti tradizionali: unanimità significa compromesso
L’impegno preso al Consiglio europeo di Tampere del 1999 – il momento fondativo della politica europea sull’immigrazione – ha dato alla Commissione europea il mandato per elaborare una strategia politica di integrazione per i migranti. Da quel momento la Commissione, utilizzando la batteria di strumenti a sua disposizione, ha proposto una serie di direttive (atti normativamente vincolanti) mirate a garantire alcuni diritti di base, uniformi per tutti i migranti. Questo approccio si è rivelato fallimentare. Quando le direttive non venivano rigettate direttamente, passavano attraverso lunghi e accesi dibattiti (quello sulla Direttiva sul ricongiungimento familiare è durato fino a quattro anni!) salvo poi essere svuotate dei loro contenuti più importanti. Se anche gli stati membri si trovavano d’accordo in linea di principio, tutt’altra cosa era l’approvazione di atti che comportavano obblighi chiari. Nel passaggio da principi astratti a regole precise, l’unanimità svaniva.
Come elaborare una politica condivisa senza le competenze per farlo
L’assenza di un accordo unanime su norme davvero vincolanti ha spinto a plasmare una politica europea di integrazione dei migranti attraverso una serie di misure di soft law (linee guida, raccomandazioni, princìpi et similia). Un mosaico di strumenti che nell’insieme hanno formato una cornice coerente ma frammentata.
La loro adozione è stata resa possibile da una combinazione di fattori. Da un lato, in un contesto in cui l’integrazione dei migranti era già una preoccupazione urgente di molti stati membri, l’impegno più forte di alcuni di questi ha condotto allo sviluppo di una politica almeno formalmente condivisa. La successione di tre Presidenze del Consiglio con un orientamento abbastanza simile – quella danese (2002), greca (2003) e olandese (2004) – in un lasso di tempo relativamente ristretto ha fatto salire la questione in cima alle priorità dell’Unione. D’altra parte la Commissione Europea, sensibile alle preferenze del Consiglio, si è dimostrata capace di elaborare una politica che risultasse accettabile a quest’ultimo.
La nascita del Fondo europeo per l’integrazione (Fei)
Il frutto più importante di questo approccio è stata la proposta della Commissione di varare un Fondo Europeo per l’Integrazione (Fei): un piccolo tesoretto di 825 milioni di euro da spendere nel periodo 2007-2013. L’obiettivo di questo fondo era riorganizzare la solidarietà tra stati a fronte di una distribuzione ineguale dei flussi migratori: integrare i cittadini di paesi terzi in tutta l'Ue attraverso l’assegnazione agli Stati membri di importi variabili in funzione dei rispettivi stock e flussi di migranti.
Senza una base legale solida a livello europeo sulla questione integrazione degli immigrati, tuttavia, era improbabile che la semplice creazione di un fondo si concretizzasse nell’implementazione di un approccio europeo all’integrazione. Questa assenza era destinata a conferire un ruolo molto limitato alla Commissione nella definizione delle priorità. Altrettanto limitati si sono rivelati, di conseguenza, i meccanismi di controllo sulle misure politiche attuate dagli stati membri.
La negoziazione per l’istituzione del fondo si concluse con un successo: quest’ultimo fu istituito. Eppure, come previsto, l’esigenza di raggiungere l’unanimità dei consensi fra gli Stati rese le disposizioni per l’utilizzo delle risorse meno stringenti, mentre aumentò la discrezionalità degli stati membri nella programmazione e gestione del fondo.
La gestione del fondo: chi si cura delle priorità europee?
La flessibilità dello strumento lasciava al singolo Stato la possibilità di decidere in quale ambito delle politiche di integrazione utilizzarlo. Quindi come è stato usato?
In fase di programmazione (quando cioè gli stati membri pianificano il suo utilizzo annuale), l’attenzione alle indicazioni fornite dall’Ue è stata modesta. In totale, solo il 28,4 per cento dei finanziamenti hanno seguito le indicazioni europee, nonostante esistessero incentivi finanziari per l’attuazione di politiche legate a specifiche priorità. Questi incentivi aggiuntivi si sono dimostrati incapaci di allineare le preferenze degli Stati membri alle indicazioni delle istituzioni comunitarie (fig.1).
Nonostante la flessibilità nello stabilire le priorità dei singoli Stati in fase di programmazione, sorprendentemente solo l’82 per cento dei fondi disponibili è stato effettivamente speso (fig. 2). Tra un Paese e l’altro si rileva una grande variabilità: da un minimo del 42 per cento dei finanziamenti sfruttati a Malta, fino alla totalità dei fondi utilizzati dalla Finlandia. L’Italia in questo frangente si classifica quarta, subito dietro alla Germania che invece si aggiudica il terzo gradino del podio.
Dopo Lisbona (2007) cambiano le regole del gioco: cosa farà ora l’Ue?
Sin dagli inizi della politica migratoria comune, l’Ue ha cercato di promuovere l’integrazione degli stranieri. Questo malgrado uno spazio di manovra molto ridotto. Senza una competenza formale in materia, lo ha fatto ricorrendo alla soft law, che si è però mostrata incapace di creare un “approccio europeo all’integrazione”.
Con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona (2007), l’Ue ha finalmente acquisito una competentza per l’integrazione che – pur limitata – ha scolpito nella pietra uno spazio per tale politica, aprendo la strada a nuovi fondi per l’integrazione degli stranieri. La creazione di una competenza specifica, per cui gli atti attinenti sono ora adottati a maggioranza qualificata, non può però essere letta come un semplice incremento del ruolo dell’Ue in materia. Altri indicatori segnalano un processo duale di estensione-costrizione.
Da un lato, l’allocazione dei fondi europei è ancora più flessibile di prima. Agli stati membri sono assegnate somme spendibili indifferentemente per asilo, integrazione, ritorni nei paesi di origine, misure varie di solidarietà. D’altro canto, l’enfasi posta sui principi che dovevano accompagnare l’utilizzo del Fei è quasi totalmente svanita. Resta da vedere ciò che il programma finanziario 2021-2027, attualmente in discussione, ha in serbo per la politica comunitaria sull’integrazione. È molto probabile che finisca per confermare il ruolo di supporto della Ue alle politiche degli stati membri anziché promuovere una politica europea di integrazione vera e propria.