- Link al libro: D'Agostini F., Ferrera M., La verità al potere. Sei diritti aletici, Einaudi Editore (2019)
In una democrazia ciascuno può dire quello che vuole. Ma le “libere espressioni” non sono tutte uguali. Alcune sono infondate sul piano empirico. Altre sono incoerenti, fallaci o contradditorie. Inoltre, nei dibattiti pubblici c’è chi è sincero e c’è chi mente. Il termine fake news è ormai entrato nel linguaggio comune. Secondo alcuni, abbiamo varcato il confine della post-truth politics: un sistema in cui le interazioni nella sfera informativa e comunicativa smarriscono l’ancoramento a standard condivisi di verità e falsità. Questi sviluppi suscitano problemi in parte inediti e comprensibili preoccupazioni. Come si può arrivare a scelte collettive che incidano efficacemente sulla realtà senza riferimento al (e un uso corretto del) concetto di verità?
La “funzione V”
Secondo la celebre definizione di Platone, «vero è il discorso che dice le cose come stanno» (Cratilo, 385c). È una posizione realista, ma non dogmatica: non si riferisce a contenuti veri, che riflettono “lo sguardo di Dio” (secondo la metafora di Hilary Putnam). Si riferisce piuttosto all’uso corretto di una funzione mentale, quella che ci induce a mantenere saldo il nesso fra ciò che pensiamo e diciamo con la realtà – il nesso che rende vere/false le nostre asserzioni. Come sostenne Aristotele, noi non possiamo conoscere la realtà (e dunque la verità) in maniera completa, ma non possiamo fare a meno di conoscerla almeno in parte, usando correttamente il concetto di verità. La “funzione V” (come l’ha battezzata Franca D’Agostini) è essenzialmente un’arma scettica, la regola primaria della skepsis, la ricerca. L’espressione greca aletheia (usata da Platone) evoca il disvelamento, il tentativo di afferrare qualcosa che si nasconde o può essere intenzionalmente occultato. In condizioni normali noi non pensiamo in termini di vero e falso. Se vedo il sole, mi limito a dire “oggi c’è il sole”, non sento il bisogno di dire “è vero che oggi c’è il sole”. Questo bisogno sorge però quando dobbiamo ragionare, dubitare, criticare, discutere.
Verità e democrazia
Come si rapporta la verità nella sua accezione aletica con la democrazia? Nel pensiero e nella prassi politica si è sempre riconosciuto che i governanti non hanno il dovere di dire sempre il vero (il vecchio tema della ragion di stato, degli arcana imperii come direbbe Tacito). La tradizione liberale (che ha inventato la libertà di pensiero e di espressione) ha sempre avuto un rapporto ambivalente con la nozione di verità, preferendo termini quali oggettività, veridicità, ragionevolezza, trasparenza. Bisogna però considerare che nelle contemporanee «case di vetro» democratiche (come le chiamava Bobbio) i margini di tollerabilità della menzogna si sono molto ristretti e sono essi stessi soggetti a procedure codificate. Nel nuovo contesto di democratizzazione della conoscenza – che riguarda anche il comportamento e le scelte dei leader – l’esercizio stesso della ragione politica è poi direttamente e costantemente esposto al rischio di disvelamenti pubblici in passato molto più difficili se non impossibili. Questa possibilità circoscrive e condiziona pesantemente oggi il ricorso alla menzogna da parte dei leader. Ai quali spetta invece il compito di tutelare e promuovere flussi comunicativi il più possibile veridici.
Sei diritti aletici
Se l’uso corretto del concetto di verità è un bene collettivo, sembra opportuno oggi considerare l’introduzione di garanzie formalizzate (un quadro di diritti/doveri) per contrastare le “sofferenze” aletiche, appunto, derivanti da informazioni false e manipolatorie oppure dal mancato riconoscimento pubblico di verità collettive e individuali.
Franca D’Agostini ha proposto un primo elenco di possibili “diritti aletici”, riferiti a tre diverse sfere politicamente rilevanti (tab. 1)
Si tratta di principi programmatici più che di diritti soggettivi in senso stretto. Ma non è irrealistico pensare che essi possano col tempo dar vita a garanzie più o meno formalizzate. Come procedere sul piano operativo? Si possono seguire tre diverse strategie. La prima è quella di costruire sul quadro di diritti già esistenti. Ad esempio, il diritto all’istruzione potrebbe includere l’addestramento all’uso corretto del concetto di verità, soprattutto per quanto riguarda l’informazione online (DA1 e DA2). I deficit di credibilità potrebbero essere corretti dal diritto anti-discriminatorio e quello relativo ai casi di diffamazione (DA3). La seconda strategia consiste nella creazione di strumenti e istituzioni aletiche: regole che presiedano alla affidabilità e serietà di ricerca e istruzione, organizzazioni preposte alla produzione di conoscenza “vera” sulle principali questioni e politiche pubbliche (DA4). Quanto alla sfera culturale, la strategia potrebbe essere quella di promuovere una deontologia “soft”, ossia il riconoscimento formale dei valori e principi aletici in codici di condotta o carte dichiarative.
Una questione politica
È chiaro che l’ingresso del tema dei diritti aletici nell’agenda politica e la possibile adozione di misure concrete dipendono dal processo politico, devono in qualche modo diventare rilevanti per lo scambio che sta al suo centro. L’esigenza di antidoti contro la post-verità, contro il disancoramento sempre più rapido della democrazia dall’uso corretto della “funzione-V” deve indirizzarsi dunque verso la pratica politica, incanalarsi all’interno dei circuiti di scambio fra governanti e governati. Deve in altre parole dar luogo a specifiche domande e/o sostegni che premano sui leader politici affinché essi intervengano sulla distribuzione di capacità e poteri all’interno delle varie sfere d’interazione sociale, accettando l’inevitabile disabilitazione della propria autorità in certi ambiti, nonché l’obbligo di salvaguardare e difendere a tutto campo le qualità e le virtù aletiche della liberal-democrazia.